La relazione del segretario nazionale/La battaglia secolare dell’Edera. Primo passo verso il progetto liberaldemocratico

Nucara al 46° Congresso Pri: "Resistere per esistere"

Cari amici, come è a tutti voi noto, il Congresso del PRI si sarebbe dovuto tenere a inizio dicembre. La situazione politica determinatasi con la mozione di sfiducia al governo ha indotto la Direzione, che in proposito era stata delegata dal Consiglio Nazionale, ad un ulteriore rinvio. Finalmente, è il caso di dirlo, ci siamo. E’ pur vero che qualche amico che si è più volte lamentato, e giustamente, dei rinvii congressuali, oggi scrive che sarebbe stato meglio rinviarlo ancora.

Non so se il richiedente abbia ragione o meno, ma tra un eventuale rinvio per pacificare gli animi repubblicani e uno sperpero di risorse finanziarie, visto che avevamo messo in moto tutta l’organizzazione che l’evento congressuale comporta, è stato scelto di celebrare il congresso. Ribadisco ancora una volta che è sempre stata la Direzione a decidere e mai il sottoscritto che pure ha condiviso le scelte della Direzione.

Veniamo ora alla relazione.

E’ chiaro a tutti che la relazione inviata alle sezioni per le assemblee che dovevano nominare i delegati, è datata pur contenendo dei principi che afferiscono alla nostra storia e che rimangono immutabili.

Ricorre quest’anno l’anniversario dell’Unità d’Italia.

Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, definita da Giovanni Amendola "la più grande conquista della storia moderna", il Partito Repubblicano ha l’orgoglio di sentirsi gelosamente fedele all’eredità risorgimentale.

A differenza di quei partiti, vecchi e nuovi che, per dirla con Paul Valéry, il grande autore del "Cimitero marino", "rinnegano per sussistere quello che promettevano per esistere", il nostro partito ha l’orgoglio di essere rimasto fedele alla sua eredità lontana. A quell’eredità laica e democratica che ebbe il suo battesimo di sangue nella Repubblica romana del 1849.

Una pagina indimenticabile in cui rifulsero le grandi doti politiche di Giuseppe Mazzini, agitatore e statista a un tempo, intransigente nei principi, ma allo stesso tempo flessibile di fronte ad una realtà che non poteva scontrarsi con il sentimento collettivo della popolazione. Fu il caso del suo diniego a Garibaldi di usare i confessionali come barricate nella difesa di Roma, "per non offendere il sentimento religioso dei cattolici romani". Fu quella Repubblica, che per prima decretò la fine del potere temporale della Chiesa e che dopo Porta Pia la nuova Italia affermò nel principio cavouriano di "libera Chiesa in libero Stato".

Potere temporale

Un principio che il vescovo di Milano monsignor Montini, poi salito al trono pontificio con il nome di Paolo VI, sintetizzò in questa affermazione: "L’Unità d’Italia ha liberato la Chiesa dal pesante fardello del potere temporale". Parole che Giovanni Spadolini, ministro della Difesa, ripeté nel suo discorso dinanzi a Karol Wojtyla, suo ospite in un rifugio alpino sul Monte Bianco. Un discorso riportato interamente dall’organo del Vaticano, l’"Osservatore Romano".

Ecco l’eredità lontana di un partito come il nostro, che, sullo sfondo dei nobili orizzonti di una storia che mai si ripete, ma sempre si rinnova, nel corso bicentenario della sua storia, resta tenacemente fedele ai suoi padri fondatori e a tutti i suoi maggiori interpreti. Ovviamente, primo fra tutti, Giuseppe Mazzini, che un anno dopo l’epopea della Repubblica romana, così scriveva nel 1850 in uno dei suoi più vigorosi scritti polemici: "Il mondo ha sete in oggi, checché per altri si dica, di autorità. Le agitazioni, le insurrezioni, sono dirette, non già contro l’idea, ma contro la parodia del potere, contro un fantasma d’autorità, contro forme incadaverite dalle quali non può uscire oggimai eccitamento, fecondazione alla vita".

Una intuizione ed una profezia che trovano un puntale riscontro nell’anomalia italiana di una Repubblica paralizzata dal divario fra Costituzione scritta e Costituzione applicata, fra Costituzione formale e Costituzione materiale, fra principi solennemente affermati e pratiche che hanno calpestato e tradito questi principi.

Certo, la "parodia del potere", come diceva Mazzini, si corregge con la separazione dei poteri. E’ la strada obbligata che convoglia per canali diversi la sovranità popolare, che, espressa da organi egualmente sovrani, impedisce che un solo corpo o un solo uomo sia investito di tutto il potere popolare.

Costituzione americana

Il segreto della vitalità della Costituzione americana sta nel fatto che i suoi fondatori, pur divisi circa la natura del potere federale rispetto al potere degli Stati, fissarono in un monumento di precisione e di sobrietà il principio che una Costituzione dovesse essere un sistema di organizzazione dei pubblici poteri efficacemente regolati dal loro reciproco controllo.

Ecco perché "in un paese senza storia", come è stato scritto, "la Costituzione creò l’America".

Sono le garanzie scritte ed esplicite del modello americano che, pur nelle diverse eccezioni delle singole realtà nazionali e culturali, si sono imposte nella storia del costituzionalismo moderno.

Il "federalismo riuscito" degli Stati Uniti fece scrivere ad Hamilton sul "Federalist" parole come queste: "L’energia dell’esecutivo è uno dei principali caratteri nella definizione di un buon governo. Essa è qualità essenziale (…) a proteggere la libertà".

E’ il solo correttivo per uscire da quella che Mazzini chiamava la "parodia del potere".

Un’intuizione che trova il suo puntuale riscontro in una riflessione di Albert Einstein nel saggio dal titolo "Il mondo come io lo vedo". "Il mio ideale politico – scrive il premio Nobel per la fisica – è la democrazia. Che ogni uomo sia rispettato come individuo e che nessuno venga idolatrato. (…) Sono assolutamente consapevole che per il successo di qualsiasi impresa complessa sia necessario che uno sia colui che pensa, che diriga e che in generale porti la responsabilità. Ma coloro che vengono guidati non devono essere obbligati; devono poter scegliere la loro guida. Un sistema autocratico di coercizione, secondo me, degenera ben presto. Perché la forza attrae uomini di bassa moralità ed io credo che sia una regola invariabile che a tiranni geniali seguano dei farabutti. Per questa ragione mi sono sempre opposto con passione a sistemi come quelli che vediamo oggi in Italia e in Russia. Quello che oggi ha portato discredito sulla forma prevalente di democrazia in Europa non deve essere attribuito all’idea democratica come tale, ma alla mancanza di stabilità da parte dei capi dei governi e al carattere impersonale del sistema elettorale.

Credo che per questo aspetto, gli Stati Uniti d’America abbiano trovato la via giusta. Hanno un presidente responsabile eletto per un periodo di tempo sufficientemente lungo, con sufficiente potere per essere veramente responsabile".

E siamo a Cattaneo, che guardava con ammirazione al modello svizzero. O al socialista Léon Blum, che cent’anni dopo Cattaneo così scriveva: "Da parte mia inclino verso i sistemi di tipo americano o svizzero che si fondano sull’equilibrio e la separazione dei poteri, per conseguenza sulla divisione della sovranità, e assicurano al potere esecutivo nella sua sfera d’azione un’autorità indipendente e continua". E’ la sola cura per guarire quello che continua ad essere "il grande malato d’Europa". Ossia, l’Italia.

Battaglia secolare

E’ sulla base di questi principi che noi troviamo la forza per continuare una battaglia secolare che ha visto tanti morti, e come ha detto recentemente Benigni, "morti che hanno consentito a noi di vivere".

Noi non vogliamo ricordare i morti per una malintesa nostalgia. Non c’è dentro i nostri ideali il concetto di idolatria. Siamo invece propensi a ricordare e rinnovare le idee che ci sono state da guida per tutta la nostra gioventù.

Il motto che più si addice a noi, in questo periodo infinito di transizione che blocca l’Italia nel suo sviluppo democratico prima ancora che economico, sarà per il prossimo futuro. "Resistere per Esistere". Come ho già scritto, Bruno Visentini sosteneva che prima di affrontare una guerra bisogna sapere di quanti soldi e di quanti soldati si dispone. E’ vero, ma è anche vero che quando i Germani nell’anno 9 dopo Cristo travolsero sulle sponde del Reno le legioni romane trucidando letteralmente i legionari, come si direbbe con trista memoria "senza fare prigionieri", ci fu un ripensamento sulla tragica sconfitta e una reazione.

A seguito di questa sconfitta, l’imperatore Augusto fu talmente colpito che cadde in depressione e morì lasciando a Tiberio il compito di riconquistare i territori perduti, con il principio che ciò serviva non solo a render "pan per focaccia", ma a difendere i confini dell’Impero oltre che evitare una reazione a catena dai popoli definiti "barbari". Cinque anni dopo il generale Germanico avrebbe riconquistato i territori persi, avrebbe disperso i Germani e avrebbe riportato Roma allo splendore antico.

Orbene, con gli opportuni paragoni, i repubblicani non sono stati sconfitti dalla storia. Tutt’altro.

Abbiamo perso tante battaglie, ma i nostri ideali sono vivi e vegeti malgrado le intemperie della vita politica italiana e le intenzioni di genocidio del mondo repubblicano.

Le nostre idee non si sono mai mummificate. Esse sono sempre al passo con gli eventi e con l’attualità.

Il mondo di oggi

Certamente Mazzini e Cattaneo non potevano prevedere un mondo globalizzato, ma hanno tracciato i solchi della storia moderna del nostro Paese. Basterebbe ricordare l’idea di Europa di Mazzini o l’Italia federale di Cattaneo (ben diversa dalla riforma del titolo V della Costituzione).

E se veniamo a tempi più recenti, come non pensare alla liberalizzazione degli scambi commerciali attuata da Ugo La Malfa che all’inizio degli anni ‘50, quand’era Ministro per il Commercio Estero, pose le basi, con quell’iniziativa, all’internazionalizzazione dell’intrapresa italiana?

Oggi, purtroppo, viviamo in un periodo in cui l’assillo del quotidiano fa strame della progettualità politica e programmatica.

Nei nostri progetti che sono antichi e che continuamente reinterpretiamo, è parte fondamentale la costruzione dell’Europa politica.

Potremmo partire da Mazzini, con la costituzione della Giovine Europa, per arrivare a Carlo Sforza e a quel grande europeista che fu Ugo La Malfa, il quale già in un discorso alla Camera dei Deputati del 18 gennaio 1957, nel corso della discussione per la firma dei trattati istitutivi delle Comunità economiche europee, sosteneva: "L’organo che dovrebbe esprimere una politica dei paesi europei non è ancora nato. La marcia europeistica è ancora al di fuori di una possibile comunità di carattere politico (…) noi non abbiamo ancora l’organo europeo che sia in grado di affrontare i problemi di ordine politico che sorgono di giorno in giorno".

Dal 1957 ad oggi qualche passo avanti è stato fatto, ma il problema posto allora da Ugo La Malfa rimane tuttora irrisolto. Gli eventi di questi giorni sulle sponde del Mediterraneo, con un esodo quasi biblico, ne sono la prova evidente.

Non esistono programmi senza un’idea politica, e tuttavia, se le idee politiche non sono seguite da intuizioni programmatiche, rimangono solo astrazioni.

E’ per questo che stamani si è tenuto un dibattito-confronto con esponenti di Fondazioni che hanno un background politico-culturale diverso dal nostro, pur facendo leva su un comune denominatore: le liberalizzazioni intese non come puro "mercatismo", ma come libertà dell’intrapresa e di conseguenza come libertà dell’individuo.

Ma in questo nostro Paese tutti gli individui sono liberi? Credo proprio di no.

Se non si è liberi dal bisogno non si è nemmeno liberi delle scelte che conducono ad un processo democratico. C’è oggi l’Unità d’Italia? No che non c’è. Come abbiamo scritto nel messaggio al Presidente della Repubblica, l’Italia è divisa non in due parti, come si potrebbe pensare a prima vista, ma in più parti. E se la FIAT dovesse lasciare Torino, il tasso di disoccupazione in Piemonte sarebbe forse più alto di quanto oggi non sia nel Mezzogiorno; "quel Mezzogiorno di cui tanto si parla senza pressoché nulla concludere", come scrisse Ugo La Malfa a Montanelli in una lettera del 1976.

Due fratelli

E mi ritorna in mente la parabola lamalfiana dei due fratelli, uno occupato e uno disoccupato. Il padre ha sempre il dovere di aiutare il disoccupato. Per meglio capirci vi fornisco alcuni dati.

Nel 2010 il reddito pro capite delle regioni meridionali è stato pari al 68,5% di quello nazionale. Quello del Centro-Nord al 111,5. Il divario tra Sud e Nord è quindi pari al 39 per cento. La situazione è ancora peggiore se si considera il reddito complessivo. I valori del reddito pro capite sono infatti falsati dal processo di emigrazione, che è ripreso con forza.

Nel 2009, nonostante la crisi, i giovani meridionali emigrati verso le altre regioni d’Italia sono stai pari a 36 mila unità.

I dati sulla disoccupazione ci dicono che le differenze tra il Nord ed il Sud restano preoccupanti. Nel 2009 la disoccupazione nel Centro-Nord è stata pari al 5,9 per cento della popolazione attiva. Nel Mezzogiorno al 12,5 per cento. Quella giovanile è ormai pari al 29 per cento. Questi dati dipingono solo una parte della realtà. Se si considerano infatti anche gli "scoraggiati" – quelli cioè che il lavoro hanno smesso di cercarlo per disperazione – il gap aumenta considerevolmente.

Nel Centro-Nord si passa dal 5,9 al 9,5%; ma nel mezzogiorno dal 12,5 al 23,9 per cento. Gli ultimi dati ISTAT (terzo trimestre 2010) mostrano un forte aggravamento. I disoccupati del Mezzogiorno sono pari al 45 per cento del totale nazionale. Fortissima la percentuale dei giovani compresi tra i 15 e 24 anni, pari al 34,8 per cento (circa 10 punti in più rispetto alla media nazionale) e quella delle donne, pari al 36 per cento, contro una media nazionale del 26,2 per cento.

Il gap storico nelle infrastrutture cresce di anno in anno. Lo dimostrano le ultime delibere del Cipe. Non ho i dati aggiornati.

Mi fermo pertanto alla delibera CIPE del 30 aprile 2009. Le progettazioni nel Centro-Nord sono pari all’86,1% del totale, contro il 13,9 del Mezzogiorno. La complessa filiera della produzione di opere pubbliche (progettazione, gara, affidamento, lavori in corso, ultimazione) ci dà queste percentuali: 28% Mezzogiorno, 72 per cento Centro-Nord.

Parafrasando Sciascia, potremmo dire che l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. La domanda che ci si pone è questa: il Mezzogiorno è una risorsa per il Paese oppure è semplicemente una zavorra?

Noi pensiamo, con tutti i difetti di una classe dirigente meridionale incapace, che potrebbe essere una risorsa.

Alcuni dati confortano quest’idea: alto tasso di scolarità della popolazione che rispetto alle popolazioni settentrionali è più giovane almeno dal punto di vista demografico, anche se dal punto di vista residenziale può essere diverso, perché i giovani più intraprendenti vanno via, rifiutando le "attenzioni" della criminalità organizzata.

Almeno sotto il profilo della lotta alla mafia il governo ha avuto gli innegabili successi dovuti non solo all’impegno del Ministro Maroni, ma anche a quanto aveva fatto Pisanu in precedenza.

L’Italia è in condizioni di affrontare il problema una volta per tutte?

Grande visione

Noi pensiamo che ci vorrebbe una grande visione politica, prima ancora del trasferimento di risorse finanziarie, male utilizzate, inutili e talvolta dannose per l’acquisizione di un senso dello Stato che si esprime nelle sue varie articolazioni.

Certamente non è periodo di vacche grasse e quando le vacche grasse ci sono state , nulla o poco è stato fatto e quel poco che è stato fatto è stato disperso nei tanti rivoli che hanno creato solo assistenza e mai sviluppo.

Se guardiamo con oggettività alcuni dati economici del sistema Paese le nostre speranze svaniscono come neve al sole.

Infatti il debito pubblico ha raggiunto la cifra record di 1843 miliardi di euro. L’espansione del debito nell’ultimo biennio ha comportato ulteriori oneri finanziari aggiuntivi per circa 7 miliardi di euro. Siamo in presenza di cifre impressionanti, che non trovano riscontro in nessuno dei 27 paesi dell’Unione Europea.

Il debito pubblico aumenta, invece di essere contenuto, e siamo arrivati al 118% del PIL. Questo debito comporta una spesa annua di 85 miliardi di interessi passivi.

Per fortuna che l’indebitamento privato si trova in condizioni migliori rispetto al resto dei Paesi di area Euro, e non solo rispetto a questi ultimi. Naturalmente l’espediente, perché di questo si tratta, di consolidare il debito pubblico con quello privato non risolve il problema, a meno che non si pensi di voler finanziare il debito pubblico con la ricchezza privata.

E’ ciò che pensa qualche "buontempone", quando propone una nuova tassa inserendo, nel già insostenibile sistema fiscale italiano, la patrimoniale.

E’ ovvio che un così pesante fardello, con l’ulteriore vincolo del contenimento del deficit, impedisce, di fatto, investimenti su infrastrutture, ricerca e sviluppo, con grave danno per la competitività e la crescita del Paese.

Molte di queste cose, e certamente in modo più approfondito e scientifico, sono state affrontate sia con l’elaborazione delle tesi che con la loro discussione.

E’ chiaro che, se la situazione è quella che abbiamo succintamente descritto, le responsabilità sono certamente larghe e diffuse e lontane nel tempo.

E’ tuttavia necessario, direi essenziale, prendere provvedimenti.

Al Ministro dell’Economia va riconosciuto, pur con tutti i guai, il merito di aver tenuto, in qualche modo, i conti pubblici. Ci ritorna in mente quanto disse Ugo La Malfa da Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel Governo Moro-La Malfa: "Siamo come un treno che marciava verso il baratro ad una velocità di 180 km/h e che ora marcia verso il baratro ad una velocità di 120 km/h".

Questa considerazione, seppur datata, rappresenta in modo efficace l’attuale momento del Paese.

Povero Mezzogiorno!

Quale strategia?

Ovviamente non è possibile ascrivere al Ministro Tremonti tutti i guai del Paese, che in tutto o in parte afferiscono alla politica generale del Governo.

Un Governo che, pur avendo il merito di qualche iniziativa settoriale, è carente di una visione strategica dei problemi che riguardano il futuro del paese: e il futuro sono soprattutto le classi giovanili.

Prima di tutto ci troviamo davanti una politica estera a dir poco confusa.

E’ pur vero che gli Stati Uniti non volgono più lo sguardo verso l’Atlantico, bensì verso il Pacifico. Ed è anche vero che l’Europa manca di una politica estera, se non univoca, almeno condivisa.

Noi celebriamo il nostro congresso proprio a ridosso di eventi di grande importanza, in mezzo al sommovimento di popolo nel Maghreb. Gli egiziani hanno cacciato Mubarak, così come i tunisini Ben Alì. Nessuno si illuda su una possibilità di facile lettura per processi e dinamiche così complesse quali quelle che si stanno dipanando in Medio Oriente. Appena il popolo egiziano si è rovesciato nelle piazze l’amministrazione statunitense si è premurata di dare la sua solidarietà a Mubarak. Quando alla Casa Bianca hanno visto che l’Iran di Ahmadinejad la dava subito al popolo egiziano e si sono ricordati che solo un anno prima Obama al Cairo aveva elogiato l’autodeterminazione, hanno cambiato marcia. L’America allora si è attivata per una transizione. Mubarak pensava che questo bastasse a fargli ultimare il suo mandato. Gli americani sono rimasti ancora nell’indecisione, poi gli eventi sono precipitati e Mubarak ha dovuto lasciare il potere sull’onda delle contestazioni. Capiamo che i timori dell’America dipendevano dal vedere il loro principale alleato nel mondo arabo uscire di scena e dai rischi che questo poteva comportare, in particolare per la pace in Medio Oriente. Eppure credo che sia difficile un processo di islamizzazione integralista dell’Egitto, che ha una forte cooperazione e subisce una notevole influenza da parte del mondo occidentale. Le masse egiziane non vogliono gli Imam al potere, ma maggiore libertà. L’esercito, che ha avuto un ruolo fondamentale in questo processo avviato, offre delle garanzie a riguardo.

Anche Ahmadinejad deve ricredersi, perché il Cairo non attende un ayatollah in esilio come Teheran dopo la cacciata dello scià. Eppure un problema di instabilità molto grave si è aperto, ma l’America non è parsa in grado di controllarlo. Bisogna stare attenti a non contrapporcisi e anche l’Europa deve stare attenta, perché se i cosiddetti regimi moderati arabi sono amici dell’Occidente, sono anche oppressori delle loro popolazioni e questo aiuta l’integralismo a rafforzarsi e ad estendersi. Anche Israele lo deve capire. Un conto è l’Egitto, un conto è lo Yemen.

Integralismo?

La rivolta yemenita potrebbe più facilmente essere preda di un’egemonia integralista, ma a quella egiziana non ci si poteva opporre e hanno fatto bene gli Usa a raddrizzare la barra, anche se questo ha indispettito Riad. I sauditi sono i meno democratici di tutti. Un problema serio c’è anche in Algeria, dove il Fis aveva vinto le elezioni e si ritrova i militari al potere. La rivoluzione iniziata nel Maghreb non si consumerà in una notte, certo è destinata a cambiare il destino del mondo da qui a vent’anni, intanto con un aumento dei flussi migratori verso l’Europa e poi per il problema del petrolio.

Alcuni opinionisti, penso al professor Vittorio Emanuele Parsi, hanno scritto perfino che potremmo rimpiangere l’eventuale caduta di Gheddafi a Tripoli. L’Egitto può trovare ancora un equilibrio senza Mubarak, la Libia difficilmente senza Gheddafi. Sono tutti elementi che vanno considerati e pesati, accanto alla questione energetica. Dai tempi di Mattei l’Italia ha cercato un’indipendenza a riguardo e quindi io non mi scandalizzo se il governo Berlusconi cerca una strada in questo senso. Semmai, sono sconcertato perché, nonostante questo, il costo della bolletta del gas non scende.

Ma capisco che si cerchi anche un rapporto con Putin, oltre che con Gheddafi, che pure oltre al gas è l’unica cerniera, per l’Occidente, in grado di controllare l’immigrazione nel nostro paese. La stessa America ha bisogno di Putin, tanto che Obama ha proposto l’ingresso della Russia nella Nato. La Russia gli è indispensabile per la guerra in Afghanistan, vista l’inaffidabilità del Pakistan, e gli è tanto indispensabile da non concedere niente all’indipendenza della Cecenia. Putin ha un comportamento del tutto errato sulla Cecenia. I popoli sono destinati comunque a liberarsi dalle tirannie.

Nella volontà russa di mantenere assoggettata quella regione si alimenta la vocazione terrorista dei suoi irriducibili e dei loro legami con al Qaeda. Noi abbiamo legami storici con gli americani e con Israele e guardiamo ai loro interessi come ai nostri. Ma se questi sbagliano, non ci sono ragioni atlantistiche per non dirglielo. Ora io non so quanto le rivelazioni di Wikileaks sui rapporti degli americani con gli altri paesi, ed in particolare con il nostro, siano attendibili. Resto però convinto che l’impegno italiano in Afghanistan, che è andato aumentando, sia una ragione di prestigio.

Immigrazione

Mi ricordo un vertice europeo in cui Blair lamentava a Prodi, presidente del Consiglio, che non potevano essere i soldati inglesi l’unica carne da cannone in Afghanistan. I nostri soldati in quella regione combattono e muoiono come quelli inglesi. Anche per questo abbiamo delle ragioni per chiedere all’Europa di non rimanere soli a fronteggiare l’immigrazione proveniente dal Maghreb. Non possono essere le nostre coste le sole ad essere invase, perché in Spagna la Guardia Civil spara sui migranti.

Il governo italiano deve chiedere un maggiore impegno da parte di tutta la comunità europea, ma se l’Europa guarda da un’altra parte è quasi inevitabile il rapporto privilegiato con Gheddafi .

Noi abbiamo discusso a lungo di quando Bush voleva esportare la democrazia nel mondo, eppure per quanto quella tesi potesse essere controversa, era migliore di quella clintoniana che vedeva gli Usa come lo sceriffo mondiale.

E badate che il problema democratico non è solo di ordine politico, ma anche finanziario; secondo il governatore della Banca d’Italia Draghi, ad esempio, le democrazie non possono permettersi un altro salvataggio delle banche a danno dei contribuenti. E credo che il governatore abbia ragione, anche perché bisogna considerare che è vero che la democrazia aiuta lo sviluppo economico, ma bisogna pur considerare che il maggiore sviluppo economico oggi viene dalla Cina, che pure non è un sistema democratico.

Se non ci sapremo misurare con questi problemi con la dovuta cautela e perspicacia, senza atteggiamenti preconcetti, ebbene la democrazia come sistema sarà esposta a un grave rischio.

Questi, cari amici, sono, per grandi linee, i problemi del futuro del nostro Paese: e se sono i problemi del Paese sono anche i problemi del Partito Repubblicano Italiano. Al nuovo gruppo dirigente andrà l’onere di affrontarli e di proporre soluzioni adeguate al di là dei successi che probabilmente, vista la nostra storia, non vedremo. Altri certamente potranno raccogliere i frutti di un lavoro paziente e costante.

Risorse

Gli italiani hanno in sé le risorse per risollevarsi sempre e comunque. Come scriveva Benedetto Croce, nel suo diario, il 10 ottobre 1944: "Immenso è l’odio che riempie i petti dei giovani e dei vecchi che ci vediamo intorno, contro lo straniero che calpesta e vitupera l’Italia e contro i suoi complici, traditori della Patria; ma pari o soverchiante è l’amore per questa Patria sventurata e nobilissima, che non meritava dalla sorte di essere trascinata dove è stata trascinata da figli indegni; è grande l’ardore e la fiducia che vediamo spirare dai volti, e la risolutezza e la sicurezza che col nostro sforzo la salveremo e la rifaremo bella come è stata sempre, non solo per le glorie della sua arte, ma per la chiara sua intelligenza e per la sua umana gentilezza, per la sua comprensione e il suo rispetto di tutti i popoli, conforme all’insegnamento e all’apostolato dell’italiano Giuseppe Mazzini".

Queste parole suoneranno come monito a quanti nel Partito Repubblicano Italiano si sono dilettati a dividere più che a unire.

I repubblicani sono portatori di uno spirito anarchico che li rende del tutto diversi dai militanti di tutti gli altri partiti. La loro storia è intrisa di divisioni e ricomposizioni, fin dalla loro nascita e forse ancor prima del 1895. Sarà il frutto dell’amicizia tra Mazzini e Bakunin, come scrive Nello Rosselli in un articolo apparso su "Critica Politica" del 25 luglio e 25 ottobre 1926.

Noi, uomini laici, non siamo soggetti nemmeno alle nostre idee, perché esse non sono mai rimaste mummificate in ideologie, ma hanno avuto come rotta gli ideali che trovano la loro origine negli eventi risorgimentali.

E in ciò bisogna dare atto a quanti cattolici hanno dato un contributo importante all’Unità d’Italia.

Basterebbe ricordare Silvio Pellico, che durante la detenzione nel carcere di Spielberg, a chi lo accusava di stoltezza per la sua fede rispondeva: "La mia stoltezza non istà nell’essere cristiano ma nel non esserlo abbastanza."

E tanti furono i sacerdoti e i monaci che dal 1821 al 1853 persero la vita, impiccati o fucilati, per l’indipendenza della patria Italia. Questo sta a dimostrare che il Risorgimento si realizzò con un impegno corale di laici e cattolici, borghesi e popolani.

Francesco Perri

Quando affermiamo che i repubblicani sono intrisi di spirito anarcoide ci viene in aiuto il pamphlet "Il Fascismo - La battaglia di Pan" di Francesco Perri, illustre antifascista calabrese, già direttore de "La Voce Repubblicana". Egli sosteneva: "I repubblicani di fronte al fenomeno fascista, bisogna riconoscerlo francamente, non furono concordi e non lo sono." E continuando: "Ma non mancarono in Romagna e qua e là fra i vecchi repubblicani di valore e di assoluta buona fede che, o protestavano clamorosamente contro l’antifascismo degli organi di Partito o masticarono amaro".

Tra i più noti che aderirono al fascismo vi furono il fervente Italo Balbo e Armando Casalini che era il Segretario Nazionale del PRI.

Il primo di Ferrara, il secondo di Forlì. Entrambi non fecero una bella fine.

Siamo al 46° Congresso Repubblicano e ci troviamo con una classe dirigente più che invecchiata e con tanti giovani repubblicani che non riescono ad emergere in questo piccolo ma glorioso Partito.

Insieme a tanti amici, che ringrazio, abbiamo posto fine alle lacerazioni del 2001 e sarei stato felice se fossi riuscito a sanare le ferite prodotte nel 1994 con l’uscita dal PRI di quasi tutto il gruppo dirigente di allora, in primis Bruno Visentini.

E’ finita, finalmente, la cosiddetta diaspora, frutto della pluriscissione del Congresso di Bari tenutosi nel 2001.

Quel Congresso determinò una lacerazione non solo perché molti amici abbandonarono e si misero alacremente al lavoro per costruire alternative repubblicane al PRI, ma anche perché coloro che rimasero, e a loro siamo grati, continuarono a perseguire, giustamente, un loro disegno politico all’interno del PRI che risultava anch’esso diviso in due. Si parlò allora della scissione dell’atomo. La scienza progredisce, e oggi possiamo parlare della fusione dell’atomo.

Due anni di lavoro, di incontri, talvolta di scontri; ed oggi ci ritroviamo riuniti sotto lo stesso simbolo per perseguire le stesse idee, pur nella distinzione sul come perseguirle.

Come ho già detto altre volte, i repubblicani sono come un fiume carsico che scompare e ricompare.

Ricomposizione

Oggi con questo Congresso rivediamo una storia repubblicana che si ricompone. A Luciana Sbarbati, Peppino Ossorio e a quanti singolarmente o in gruppo sono di nuovo con noi, un grazie e un applauso.

La maggiore forza politica che ci può derivare da questo abbraccio con tutto il mondo repubblicano ci consente di perseguire con maggiore coesione il progetto liberaldemocratico.

Come ho già detto nell’ultimo Consiglio nazionale del PRI: "Un repubblicano europeista deve ben sapere dove sarà la sua collocazione politica in Europa e dovrà battersi perché questo disegno si realizzi in Italia".

Siamo tra i fondatori dell’ELDR.

E fu Ugo La Malfa a sottoscrivere quell’accordo ricordando già all’epoca che noi eravamo la sinistra di quel raggruppamento, perché questo avevano chiesto i liberali inglesi che non volevano essere additati come i "conservatori" d’Europa.

In Europa esistono tre famiglie politiche: i popolari, i socialisti e i liberaldemocratici. Noi non abbiamo dubbi su quale deve essere la nostra famiglia di riferimento.

Il Congresso a tesi è il primo passo per costruire la Costituente liberaldemocratica.

Con tutti coloro che ci vogliono stare, con altre forze politiche, movimenti, associazioni, fondazioni che insieme ai repubblicani vogliono condividere questo disegno strategico la cui realizzazione, se mai ci sarà, richiederà un lungo periodo di impegno.Oggi è l’inizio di questo disegno, non l’approdo.

Come scriveva Bovio ne "Il Secolo Nuovo" (1923): "Politica è pratica illuminata che accetta il vero e non rompe la tradizione. Questa politica connette morale e diritto, non separabili in guisa veruna: da tal connessione lascia derivare il bene, il bene di ciascuno non separato mai dal bene di tutti".

Ho dedicato tanti anni della mia vita al mio Partito. L’ho fatto con amore e passione, senza mai indulgere alle pur legittime ambizioni politiche, quando queste ultime potevano apparire, solamente apparire, come freno allo sviluppo del Partito Repubblicano Italiano.

Agli amici che, lasciatemelo dire, in modo sconsiderato mi accusano, talvolta anche in modo volgare, di interesse personale, posso solo dire: vi auguro di avere la forza di rinunciare a cariche istituzionali, dalle più modeste alle più elevate, per portare avanti gli ideali repubblicani, di Mazzini, di Bovio, di Giovanni Conti, di Randolfo Pacciardi, di Ugo La Malfa, di Giovanni Spadolini, e penso che possa bastare.

Potrebbe sembrare un addio e non lo è: posso fare il mio dovere di repubblicano anche da semplice iscritto.

Avrò così la possibilità di dire anch’io quello che penso, poiché in questi 10 anni di segreteria ho avuto solo l’onere di portare a sintesi ciò che a pensare erano i repubblicani nella loro interezza.

Viva l’Italia! Viva il Partito Repubblicano Italiano! Viva tutti i Repubblicani!